
Work for equity, ovvero lavorare per una startup da imprenditore
Sono oltre 9000 le startup iscritte al registro delle imprese, sull’onda anche delle agevolazioni previste nel decreto Sviluppo Bis – Decreto Crescita 2.0 (Dl 179/2012), coordinato con la legge di conversione n.221 del 2012. Tale decreto ha istituto la formula di startup innovativa su cui sono intervenute successive regolamentazioni con decreti attuativi, incentivi e regolamenti. (http://startup.registroimprese.it).
Queste realtà per poter realizzare i loro piani di sviluppo e di crescita hanno e avranno sempre di più bisogno di competenze e di persone altamente qualificate, sia sul lato tecnologico e commerciale, sia su quello finanziario. La capacità di attrarre talenti è spesso limitata per le startup, per la scarsità di risorse a disposizione e per l’impossibilità di pagare stipendi di mercato per profili qualificati. E’ uscita sulla stampa una ricerca che evidenzia come le startup non riescano a reperire know-how qualificato; vorrebbero quindi assumere personale, ma non trovano le competenze necessarie. I profili maggiormente richiesti sono programmatori senior, social media marketer ed esperti in amministrazione e finanza. Viene da pensare che forse non si tratta di scarsità di know-how nel mercato, ma forse di incapacità di queste realtà di attrarre risorse qualificate, anche attraverso un piano di remunerazione soddisfacente.
In questo senso la legge 221 del 2012 e’ stata introdotta per incentivare la crescita sostenibile e l’occupazione, soprattutto giovanile, creando le condizioni favorevoli per lo sviluppo di imprese innovative e tecnologiche nel nostro paese.
Questa legge introduce, tra le altre misure, il work for equity vale a dire la possibilità per amministratori, dipendenti e collaboratori continuativi di essere remunerati con partecipazione al capitale dell’impresa (che sia startup o incubatore certificato). Questa è un’importante misura che da una parte solleva le neo-imprese dall’erogare stipendi che affosserebbero i business plan e sposterebbero in là nel tempo il raggiungimento del punto di pareggio economico, dall’altra consente al prestatore d’opera di partecipare al successo futuro dell’azienda per cui lavora, vedendosi riconosciute quote di capitale in cambio del lavoro prestato.
In questo modo chi decide di collaborare con una startup innovativa o un incubatore certificato si assume un rischio imprenditoriale: entrando nel capitale della società potrà partecipare al successo della società stessa (qualora ad esempio venisse acquisita da una società ad un prezzo maggiore rispetto a quello di assegnazione delle quote o stock option) come anche al suo insuccesso (nel caso dovesse fallire il progetto imprenditoriale, le quote detenute dal lavoratore non varrebbero nulla e di conseguenza non verrebbero remunerate le prestazioni di lavoro fornite in quell’arco di tempo).
E’ bene anche sottolineare il beneficio fiscale del work for equity: “L’assegnazione di azioni, quote o strumenti finanziari nel contesto del work for equity è esente da imposte e non concorre alla formazione del reddito imponibile del beneficiario, né al momento dell’ultimazione dell’opera o del servizio né al momento della effettiva emissione di tali azioni, quote o strumenti finanziari.”
Questo naturalmente è un incentivo non da poco, in quanto lavorare per queste realtà può significare redditi tax free sia a livello fiscale che contributivo.
Questa forma di remunerazione presenta certamente enormi benefici per i collaboratori e per le startup, ma non si possono non evidenziare anche gli aspetti negativi:
1. Anche se l’equity si presenterà un’idea vincente e darà un’ottima remunerazione in futuro (cosa che non è garantita), non permetterà di sostenere le spese per vivere oggi. In altri temini bisogna considerare come guadagnare “cash” per poter far fronte a tutte le spese mensili, e questo può comportare il dover lavorare presso altri clienti o aziende (distogliendo tempo ed energie al nuovo progetto imprenditoriale);
2. I futuri investitori potrebbero valutare le quote ad un prezzo inferiore rispetto a quello di assegnazione. Infatti valutare un’azienda prima che abbia cominciato a generare ricavi è sempre molto aleatorio e vago. Ad esempio, con l’obiettivo di pagare in equity, i fondatori potrebbero stabilire a 1 milione di euro la valutazione del proprio business e creare mille quote da 1000 euro ciascuna. Ma al momento del coinvolgimento dell’investitore, questi potrebbe valutare la startup 1/4 di quel valore ed i fondatori potrebbero trovare l’accordo pur di non perdere l’investimento. In tal caso il valore di quelle quote, e di conseguenza del lavoro prestato, si vedrebbe ridotto drasticamente.
Sarebbe quindi importante trovare forme “ibride” di remunerazione, soprattutto per attrarre le risorse più qualificate e con più anni di esperienza. Prevedere, quindi, certamente il work for equity (ad es. piani di stock option) ma anche compensi mensili commisurati ai business plan e ai flussi di cassa che la startup medesima è in grado di generare.
Nel caso di un incubatore, per la sua forma più strutturata e per la presenza di investitori qualificati che possono garantire maggiori fondi anche in fase iniziale, forme più complesse di remunerazione potrebbero essere previste, come ad esempio:
– prevedere obiettivi di performance individuale e aziendale ai quali legare la remunerazione del prestatore d’opera
– stabilire un compenso minimo periodico legato al lavoro svolto e alla criticità del servizio reso all’azienda stessa
– assegnare quote di capitale o strumenti finanziari partecipativi con dei limiti temporali per la successiva cessione dei titoli stessi, o vincoli legati alla performance della startup (ad es. vincolare la cessione al raggiungimento di un determinato obiettivo di ricavi o profitto).
In conclusione, attrarre risorse qualificate che possano dare lo slancio alla startup per la sua crescita e per il suo successo, significa coniugare l’aspetto imprenditoriale che è insito nel work for equity (che però vede monetizzare il lavoro prestato dopo un determinato periodo di tempo, anche anni) con quello “compensativo”, che consenta al prestatore d’opera di potersi dedicare completamente al progetto di impresa, senza doversi contemporaneamente occupare di altre attività immediatamente remunerative. Come sempre, il fattore tempo è un elemento determinante quando si parla di denaro.
Ciao Alessandra,
una breve riflessione su un punto toccato nel tuo post. Quando si discute della difficoltà delle startup di attrarre talenti, non si tratta forse del problema che anche le startup, le quali dovrebbero avere una naturale propensione al rischio, abbiano gli stessi atteggiamenti di recruitment delle grandi aziende, quelle cioè decisamente più prudenti e quindi, talvolta, incredibilmente più esigenti? Intendo dire, non è che anche le startup si siano messe in cerca di profili impossibili, come talvolta fanno le grandi aziende, del tipo, per fare un paradosso: “Senior Developer, Laurea Magistrale (preferibilmente PhD), esperienza minima 4 anni (preferibilmente estero), età massima 30 anni, remunerazione a progetto, contratto 3 mesi, possibile rinnovo”? Forse gli startupper in cerca di collaboratori dovrebbero andare a caccia delle persone di cui hanno bisogno e scommettere su chi hanno davanti (e talvolta le scommesse si perdono), anziché diventare dei selezionatori di CV.
Fammi sapere cosa ne pensi,
Davide
Ps: detto questo, poter remunerare con delle quote è sicuramente interessante: inanzitutto può essere utile ai co-fondatori per condividere il rischio e legarsi tutti alla riuscita del progetto. Poi è anche una forma alternativa di pagamento molto attraente per il fatto di essere quasi esente da tasse (e questo è un aspetto molto interessante e utile per gestire le risorse: se è realmente tax-free, i 1000€ di equity sono netti, mentre 1000€ netti in stipendio corrisponderebbero a ~1700€ lordi).
Caro Davide,
Le startup dovrebbero ben sapere di quali risorse hanno bisogno; certamente non di quelle “impossibili” (di cui ogni tanto si vede in giro negli annunci di lavoro, come giustamente evidenzi tu), ma di competenze essenziali al buon funzionamento della, seppur semplice, organizzazione. Come sempre, e’ fondamentale essere realistici, non pretendere l’età molto giovane (che spesso nasconde una retribuzione al limite del volontariato…) con un’esperienza da “senior”. Credo che nelle startup possa essere molto virtuoso un team plurigenerazionale, persone giovani e meno giovani, dove l’energia e a volte un po’ di spregiudicatezza si sposino con l’esperienza e la maturità. Potrebbero nascere interessanti sinergie.
PS: il work for equity per le startup innovative e’ totalmente esente da tasse e contributi (in base alla nuova normativa) a condizione che le quote non vengano acquisite dalla startup stessa o da una società controllante (quindi il collaboratore monetizzerà quando le quote verranno cedute a seguito di una quotazione o acquisizione da parte di terzi).
Grazie per il tuo commento Davide.
CIao Alessandra,
bel post, molto informativo sulla situazione del WFE in Italia.. Rivedremo i nostri contratti di consulenza fra un paio di settimane per includere proprio il WFE come da legge 221.
A presto,
Frank
Ciao Frank,
Grazie del commento! Complimenti a voi, siete molto avanti da quel che mi dici.
Buon lavoro e a presto
Alessandra
L’argomento è di quelli appetitosi. Potrebbe essere divertente creare un luogo nel quale agevolare l’incontro tra startuppers e senior manager. Immagino che tutti consociate “Back to work” del Sole 24 ore. Ecco, una cosa simile ma orientata da un lato alle start-up e dall’altra ai senior manager interessati al WFE.